Una noticina personale (non vogliatemene): venni in contatto con la
fantascienza scendendo, come è lecito attendersi in un racconto fantastico, in
una vecchia cantina dove i libri (erano per lo più edizioni Urania) erano
ammassati alla rinfusa. Era la fine degli anni ’70 / primi ’80 e oggi molti di
quei romanzi, allora già un po’ datati, sono vintage in un modo delizioso e
quasi struggente. C’era anche una raccolta di racconti di Poe, un’altra legata
alla serie "Alfred Hitchcock presenta" e una vecchia, muffosa edizione di
"Dracula" (quei tre libri, alla lunga, avrebbero influenzato il mio
immaginario molto più degli altri). Dell’horror, però, ho parlato sopra e
adesso tocca alla fantascienza.
FantaSCIENZA appunto, senza la bacchetta magica delle fate.
Sappiamo tutti quando è nata; alla fine dell’800, con l’illuminazione
pubblica e il ballo Excelsior. Certo, anche prima (per esempio l’isola volante di Laputa, di cui parla
Jonathan Swift) è possibile trovare elementi fantascientifici nelle opere di
narrativa; lo stesso Frankenstein può essere considerato un romanzo anche di
fantascienza, ma è – a mio parere – solo con l’industrializzazione di massa
delle società occidentali che il genere acquista la fisionomia che gli è
propria.
"Che cosa succederà al mondo dopo che io non ci sarò più?" è la
domanda che sta dietro ad ogni racconto di fantascienza (come a molti altri,
ovviamente), ma, a mio giudizio, ciò che caratterizza la fantascienza è
utilizzare la scienza e la tecnologia per rispondere.
Siamo nell’era del positivismo, del colonialismo e delle scoperte
geografiche. Non a caso Doyle, il papà di Sherlock Holmes, scrisse più di un
racconto di fantascienza anticipando per esempio, e non di poco, Micheal
Crichton.
A me piace pensare che, sin dall’inizio, il genere presenti la doppia
faccia che da sempre gli è propria.
Abbiamo infatti le utopie – che denotano una fiducia pressoché illimitata
nel progresso dell’uomo – e le distopie – che invece vedono abbastanza nero.
Abbiamo Verne che ci descrive in termini piuttosto trionfalistici la
conquista della Luna e degli abissi. Anche quando ci parla di eroi
"maledetti", come Nemo (non il pesciolino, il capitano), la maledizione
sta nel fatto che questi uomini sono troppo avanti e che il mondo non è ancora
pronto per le nuove scoperte, non nell’intrinseca perniciosità delle stesse;
non viene mai messo in dubbio che il progresso della scienza e della tecnologia
sia – in sé e per sé – fondamentalmente "buono".
Accanto a lui, però, abbiamo Wells che qualche dubbio se lo pone. L’isola
del Dottor Moreau non è esattamente l’Eden e, anche se nel frattempo ci saranno
millenni di progresso, già sappiamo che intorno all’anno 800.000 d.C. i nostri
eredi non saranno gli apollinei Eloi (più o meno bestie da macello), ma i
dionisiaci, cannibali Morlock. Insomma: non solo l’uomo non potrebbe usare bene
il potere conferitogli dalla scienza, ma la stessa scienza, forse, non è,
sempre e comunque, bene.
Facciamo un salto di qualche anno e accenniamo ad Asimov. La ragione, la
scienza (positronica o psicostoria che sia) possono salvare gli uomini dalla
barbarie in cui periodicamente e necessariamente ricadono. Gli stessi androidi,
nelle mani di Dick, hanno tutt’altro ruolo e scopo, fino a mettere in crisi,
non attraverso una banale conquista, ma grazie alla loro semplice, perturbante
esistenza, il concetto di identità e di umanità (dietro c’è, ancora una volta,
il personaggio della Shelley). Se facciamo un altro salto (mica abbiamo la
macchina del tempo per niente, no?) atterriamo sul pianeta Cyberpunk e non è un
bel vedere.
Ho diviso, molto grossolanamente, tra utopie e distopie.
Adesso mi va di fare un’altra divisione. Ci sono storie che si occupano
soprattutto di come funzionano le macchine e altre che si occupano di come
funzionano gli uomini. Dico subito che non ho grande simpatia per le prime. Se
proprio ne avessi voglia (ahahaha) leggerei un libretto di istruzioni di
qualche aggeggio in vendita oggidì (non lo faccio mai, appartengo alla scuola
di quelli che immaginano grosso modo a che cosa possa servire un tasto, lo
schiacciano e vedono che cosa succede e confesso che qualunque oggetto un po’
più complesso di un telecomando mi mette in crisi) però stiamo parlando di
fantascienza e quindi è necessario che, dietro o sotto il racconto, ci stia una
certa dose di verosimiglianza scientifica.
Per questa ragione ho qualche
difficoltà a considerare per esempio "Cronache marziane" un libro di
fantascienza. Il grande Bradbury ci dice che le astronavi vanno su Marte, punto
e basta. Marte, poi, è spesso simile al natio Illinois. Anche avendo le
conoscenze degli anni ’50 è un po’ dura da credere… insomma, stiamo più dalle
parti della fantasy, ma in fondo chi se ne importa delle etichette?
Un romanzo
fantascientifico, invece, è senza dubbio il grande, distopico Fahrenheit 451,
così come lo è Brave New World di Huxeley (e non dimentichiamo "1984").
Sono libri insomma in cui si parla di una possibile, scientificamente
sostenibile scoperta o sviluppo scientifico o tecnologico e si immagina che
influsso potrebbe avere quella novità sulla società e sull’individuo. Per me la
fantascienza è questo.
Bene, ora che vi ho seccato abbastanza con questa carrellata assolutamente
insufficiente e non rappresentativa (tranne forse per il sottoscritto) vorrei
farvi una domanda (sperando di non disturbare chi si è già addormentato): quale
tra questi libri sentite più vicino al vostro modo di vedere le cose?
Molto probabilmente, non pochi di voi sentiranno più affini al proprio modo
di sentire i romanzi in cui viene descritta un’utopia negativa, che sia il
mondo distrutto dalla guerra nucleare, devastato dall’inquinamento, oppresso
dalla dittatura mediatica, disumanizzato dalla genetica e dalla robotica.
Non è un caso e questa disillusione nasce, a mio parere, da due ordini di
motivi.
Tornate un attimo con me in quella cantina.
Siamo alla fine degli anni ’70, il muro di Berlino è bello saldo, i reduci
del Vietnam girano smarriti per le strade americane e coalizioni ondivaghe di
pluripartiti governano il Bel Paese (da questo punto di vista non è cambiato
poi tanto).
Il duemila è il futuro, gente; un’epoca ancora abbastanza lontana da poter
credere che le auto in quei giorni (giorni che noi vedremo) voleranno tra i
grattacieli anziché intasare le strade.
Tornate ai nostri giorni, adesso e chiedetevi: tra venti, trent’anni,
scienza e tecnologia renderanno il mondo migliore?
La risposta, come dicevo sopra, è probabilmente no e credo che sia
determinata da un fattore anagrafico e un fattore sociale.
Gli anni ti portano via i sogni, le illusioni, le utopie, certo, ma anche,
stando ad un livello molto più terra terra, la capacità di padroneggiare la
tecnologia.
Ho guardato degli adolescenti e sono giunto alla conclusione che l’homo
sapiens stia sviluppando una nuova forma di pollice opponibile… perché come
altrimenti farebbero a smanettare sul cellulare con quella velocità?
Prendete un ragazzino e dategli un computer (o un qualunque oggetto a medio
/ alta tecnologia). Garantito che, in capo a pochi minuti, capirete che cosa
devono aver provato gli indio quando hanno visto le prime armi da fuoco.
La nostra è una società tendenzialmente vecchia e, come tale, la massa
della popolazione non ha con la tecnologia quella dimestichezza che
contraddistingue le nuove generazioni, quindi, per il grande pubblico, l’appeal
della fantascienza svanisce. Non solo: di solito si teme ciò che non si
comprende. Di qui una certa tendenza a vedere nero.
Ma ancora non basta.
Vecchi o giovani che siamo penso che, come società – e spesso a torto, c’è
molto di irrazionale in questo – oggi non crediamo più nella scienza e nella
tecnologia come strumenti per creare un futuro migliore. Crediamo negli iPad,
nei social network e nei cellulari, ma non è la stessa cosa. Non ardiamo più
dal desiderio di andare a scovare gli alieni in qualche angolo del cosmo
(nemmeno per conquistarli), ma aspettiamo che arrivino per toglierci dai guai o
al massimo per far piazza pulita di tutto il caos che abbiamo combinato.
Il lettore contemporaneo di fantascienza potrebbe dire "c’era una
volta il futuro" e dipinge, come per esorcizzarli, cupi scenari (ho già detto
che spesso la letteratura fantastica è una forma di esorcismo? Oh be',
pazienza).
Credo che questa considerazione valga per tutti i tipi di fantascienza, da
quelli, tradizionali, in cui compare e predomina il tema del viaggio, nel tempo
e nello spazio, a quelli in cui si descrive la nostra società così come
potrebbe risultare a seguito di una evoluzione (o involuzione) scientifica o
tecnologica: ingegneria genetica, scoperte atomiche, scoperte dell’ambito della
psicologia della parapsicologia, delle scienze sociali. Credo che valga,
altresì, per i racconti ucronici, in cui si domanda "che cosa sarebbe
successo se…" (esempio più frequente: se i nazisti avessero vinto la guerra),
per quelli steampunk, cyberpunk, per la fantascienza apocalittica o
postapocalittica, fantapolitica ecc.
A questo punto, entrate in una libreria, magari una di quelle grandi e fate
una prova. I romanzi di fantascienza sono pochini, forse ancor meno di quelli
dell’orrore. Tutti e due, assieme, non raggiungono la quantità dei romanzi
fantasy.
Insomma: anche la fantascienza è un genere letterario appannato e la causa
principale è, a mio parere, la sfiducia nel domani.
A pensarci bene è una considerazione estremamente triste, il punto finale
di una parabola cominciata dopo la seconda guerra mondiale quando a tutti è
stato chiaro che cosa la scienza poteva provocare.
Ormai non capiamo più il progresso, non ce ne fidiamo più, abbiamo
trascurato le grandi teorie, le grandi scoperte, le grandi invenzioni e ci
siamo rifugiati nelle "apps" (la prima volta che ho sentito la parola non
sapevo se ero un povero scemo o se la sintonia della TV aveva problemi, poi,
dopo due giorni, ho capito di cosa stava parlando la pubblicità).
Limitando il discorso alla narrativa, se, da un lato, c’è stato un
riaccendersi dell’interesse, sebbene con le prevedibili speculazioni, per le
opere narrative che parlano di epidemie (fatemi aprire una parentesi: ne
"La guerra dei mondi" di Wells, sono i virus e i batteri, contro i quali
non sono più immuni, a far fuori i marziani!) dall’altro si potrebbe sviluppare
una narrativa fantascientifica che parte dall’epidemia per raccontare una
storia.
D’altra parte è anche possibile che il medium della narrazione, in
particolare quella scritta, non sia ritenuto il più idoneo a esporre questo
fenomeno, preferendo, utenti e autori, altri media come serie tv o web, o
videogiochi ecc.
D’altra parte ancora, l’atteggiamento "magico" è assai diffuso e si
riscontra tipicamente nel genere letterario detto "fantasy", di cui parlerò la
prossima volta.
Prossimo appuntamento: La Letteratura Fantastica - il Fantasy
Ti faccio ancora una volta i miei complimenti, perdonami ti leggerò con calma e risponderò ad alcune tue domande, mi piange il cuore non vedere esperti e appassionati seguirti, spero che qualcuno si aggreghi, ti meriti considerazione!
RispondiEliminafirmato il Fest
Caro Rubrus, concordo con te, parafrasando il titolo di un film, si è "ristretta" la fantascienza. Per comprendere appieno questa frase dobbiamo andare un po' indietro.
RispondiEliminaL'espressione "science fiction", letteralmente "romanzo scientifico" o "letteratura scientifica", comunemente tradotta in italiano con "fantascienza" (nel seguito scriveremo fs), risale al 1926 ed è dovuta al fondatore di "Amazing stories", Hugo Gernsback. Tuttavia si parlò di "romanzo scientifico" già dalla seconda metà del 1800, soprattutto in relazione alle opere di Jules Verne (1828-1905) e di H.G. Wells (1866-1946). La fs, secondo la formula di Gernsback avrebbe dovuto essere per il 75% letteratura e per il 25%, sempre secondo Gernsback, aveva (anche) una funzione educativa, oltre che di intrattenimento.
Più di ogni altra cosa, due romanzi di Verne ci mostrano cosa fosse la fs quando nacque. Sono "Cinque settimane in pallone" (1863) e "Dalla Terra alla Luna" (1865). Nella seconda metà del XIX secolo, molte cose erano profondamente diverse da oggi. Sulle carte geografiche dell'Africa apparivano ampie zone bianche, di cui non si sapeva nulla, venivano marcate con "hic sunt leones", qui ci sono i leoni. Oggi, sebbene i ragazzi non sappiano più leggere le cartine, disponiamo di una cartografia accuratissima, che ci permette di vedere dettagli delle dimensioni di una decina di centimetri. La fisica aveva prodotto le eleganti equazioni della meccanica di Lagrange e di Hamilton e la termodinamica. In Francia regnava l'imperatore-scienziato Napoleone III e si era nel pieno della Rivoluzione Industriale, che applicava con successo le idee scientifiche alla produzione di beni. Di più, si investiva nella formazione scientifica in una maniera oggi inimmaginabile e l'istruzione veniva percepita dalla popolazione come un ascensore sociale. Tutta la società europea era convinta che non vi fossero limiti al progresso e alla scienza. Così in ""Dalla Terra alla Luna", il protagonista Barbicane progettava un cannone capace di inviare sulla Luna una capsula con tre passeggeri e in "Cinque settimane in pallone" Verne descrive un pallone aerostatico innovativo che permette ai protagonisti di colmare ampie aree bianche della cartina africana. Non è ininfluente osservare che il pallone di Verne sia stato effettivamente realizzato e il cannone di Barbicane sia stato preso in seria considerazione dalla NASA per inviare satelliti artificiali in orbita.
L'idea di una scienza senza limiti è stata travolta nei primi anni del XX secolo dalla relatività ristretta di Einstein (1905) e dalla meccanica quantistica di Schroedinger (1926). Il concetto di istruzione come "ascensore" sociale si è infranto nello scontro con il capitalismo globalizzato: oggi saranno ricchi solo i figli dei ricchi, ma questo forse lo si è pienamente compreso solo all'inizio del XXI secolo. Mi fermo qui, almeno per il momento, ripromettendomi di tornare sull'argomento in futuro,
Caro Ezio, innanzi tutto ti dico che la mia versione o sviluppo del tuo racconto sull'oviparus è quella che verrà pubblicata fra due uscite – una è domani, l'altra più in là, poi tocca a quello.
EliminaDetto ciò, passo alla tua osservazione.
Certamente: la sf si è sviluppata nei paesi con maggior spinta tecnologica e scientifica, quindi prima la Francia e la Gran Bretagna, poi gli USA, dove il genere è esploso nel XX secolo. Si trattava di paesi con un sistema liberale e capitalistico, ma ricordiamo che esiste una importante sf russa e sovietica che si è sviluppata negli anni successivi; cito Bulgakov, anche se dubito che molti storcerebbero il naso a catalogare “Cuore di cane” o “Le uova fatali” come opere di sf (e infatti sono anche un'analisi critica del neonato sistema comunista) e Lem, noto soprattutto per “Solaris”, ma che ha scritto anche altro.
I pericoli e rischi connessi al progresso scientifico li vediamo già nel Frankenstein ovvero il Prometeo moderno – e già il sottotitolo dice tutto: alla fin fine i miti hanno già esposto i concetti base in enunciati fondamentali, ancor oggi in gran parte validi e tutto ciò la dice lunga sul progresso umano.
Non posso però non ri-menzionare Lovecraft, che si trova all'incrocio tra i generi, il che dimostra, se ce ne fosse bisogno, la relatività dei generi, che servono fino a un certo punto. Le sue entità sono sia dèi sia alieni (HPL si infuriava quando venivano ridotte a semplici ET come quelli che popolavano le pagine di Weird Tales e chissà come avrebbe reagito a vederli oggi come star del web o dei videogiochi quando lui teneva moltissimo alla loro, relativa, irrappresentabilità). Personalmente, lo ritengo prima di tutto un mitografo, come Tolkien o Dunsany, che avvertiva la necessità di una nuova trascendenza adatta al mondo moderno.
Sì dirà che che HPL era un materialista e si diceva ateo e che parlare di trascendenza a proposito del “solitario di Providence” (che poi così solitario non era) è sbagliato, ma l'argomento è complesso e merita, per comodità espositiva, un commento a parte.
Sul punto mi accodo un po' alle idee dello scomparso Giuseppe Lippi.
EliminaA mio parere è innegabile una apparente contraddizione tra il proclamarsi ateo e materialista e lo scrivere di esseri con attributi divini ed oggetto di venerazione.
Tutto ciò si spiega se si rovesciano, come accade anche in altri autori ma in HPL tra i primi, i parametri dell'approccio. In HPL la conoscenza, in primo luogo la conoscenza scientifica, specie nelle forme della fanta-archeologia (molto, molto prima di Hancock ed epigoni giù giù fino ai vari “Kezzenger”) non è fonte di progresso, ma di dannazione e perdizione. L'incipit de “Il richiamo di Cthulhu” è un manifesto programmatico e letterario Ritengo che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana di mettere in correlazione tutti i suoi contenuti. Viviamo su una placida isola di ignoranza nel mezzo del nero mare dell’infinito, e non era destino che navigassimo lontano. Le scienze, ciascuna tesa nella propria direzione, ci hanno finora nuociuto ben poco; ma, un giorno, la connessione di conoscenze disgiunte aprirà visioni talmente terrificanti della realtà, e della nostra spaventosa posizione in essa che, o diventeremo pazzi per la rivelazione, o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di un nuovo Medioevo”.
Troviamo, aggiornato ed espanso, il tema della hybris e della conseguente ricerca della conoscenza proibita che c'era già nel romanzo della Shelley. In HPL tutto il tema assume però accenti ben più radicali. “Le scienze” (sottolineo “scienze”) sono fonte di dannazione. La mitologia lovecraftiana è quindi sì una mitologia, solo che è una mitologia negativa e non soteriologica: i suoi dèi non sono cioè dei salvatori, ma indifferenti o ostili.
Negata ogni valenza salvifica alla scienza, rimane però la necessità ricerca di “senso” che, a mio parere, si esprime, nelle forme, anche se non nei contenuti, di un impianto che oserei dire, tra cultisti, adoratori, sacerdoti blasfemi ecc. “religioso”.
In quanto espressione di culto nel nulla, del vuoto di senso, è evidente che la difesa contro questa visione disperata o disperante della realtà frutto di tale teologia nichilista non può che assumere due forme: da un lato, appunto, ateismo e materialismo (se le divinità devono essere così, meglio che non ci siano e quindi ecco l'ateismo) e, contemporaneamente, estremo relativismo (siamo destinati ad essere annientati, ma in fondo siamo già niente e quindi non è un gran danno); dall'altro la dimensione del sogno e del fantastico – ed ecco quindi i racconti onirici che però, da un certo punto in poi, direi da “La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath”, diventano per l'autore stesso sempre meno sostenibili: partendo dalla base materialista e nichilista, HPL non riesce più a sostenere la credibilità, anzi la credulità, come diceva Coleridge, di questo tipo di storie e quindi, a poco a poco, smetterà di scriverle e, dopo l'insuccesso de “Le montagne della follia”, sempre poco a poco smetterà del tutto di scrivere.
La ragione della sua afasia creativa è a mio parere trasparente: il suo impianto materialistico era incompatibile con la sua vocazione di narratore del fantastico.
Ma torniamo appunto alla sf cui questa parte della chiacchierata appartiene.
Parlando appunto di tecnica, e come dicevo nel blog vero e proprio, io credo che la sf si sia spostata di medium.
EliminaNaturalmente si scrive ancora sf, ma credo che, e proprio perchè scienza e tecnica sono colonne portanti del genere, esso tenda più facilmente di altri ad essere narrato con altri media più recenti: cinema, tv. videogiochi ecc.
“Matrix”, come idea di base, con la sua messa in crisi del concetto stesso di realtà, potrebbe essere benissimo un romanzo di PK Dick, ma è appunto un film e il T800 di Terminator è, anche visivamente, assai simile al mostro interpretato da Boris Karloff – anche se, fateci caso, ogni ambiguità della creatura della Shelley è, in questa linea narrativa, scomparsa: le nostre creature con le quali abbiamo giocato a fare dio, vogliono farci fuori, punto.
Qualche riga la merita “La cosa” di Carpenter, regista di altri film critici tramite distopia del mondo contemporaneo come “Essi vivono”, “!997 fuga da New York” e sequel, ma anche i molto lovecraftiani e dickiani “Il signore del male “ o “Il seme della follia”.
Il romanzo breve o racconto lungo “Who goes there” è piuttosto dissimile dal film di Hawks (che ha usato Nyby come paravento) nel quale “la cosa” è un alieno che viene dal cielo e con cui non si può trattare, come vorrebbero gli scienziati, ma solo sparare, come vogliono i militari, e dietro il quale si agita abbastanza scopertamente la minaccia comunista. Il film di Carpenter, degli anni '80, uscito lo stesso anno di ET (due modi opposti in cui proiettiamo sull'alieno le nostre speranza e i nostri timori) è molto più fedele e, attraverso le capacità metamorfiche della creatura ci grida “non ci si può fidare di nessuno, oggi come oggi”. Il libro, insomma, era più moderno del primo film ed anticipava già di diversi decenni il secondo. La narrativa, insomma, anticipava i temi che sarebbero venuti (ma già “L'invasione degli ultracorpi” o “Il villaggio dei dannati” - titoli italiani- narravano storie simili). Qualche anno fa, è uscito il terzo film, il solito prequel che poco o nulla dice tematicamente e riesce persino ad essere inferiore visivamente al film di Carpenter: segno che spesso, ormai, già il cinema segna il passo arrancando dietro alle piattaforme di streaming.
C'è però un altro aspetto che vorrei trattare e su cui parto dall'idea di Ezio Bruno: l'argomento del Hic Sunt Leones.
Scrive Ezio che nell'Ottocento c'erano molte zone del pianeta ancora inesplorate. Verissimo.
EliminaOggi però abbiamo un intero universo inesplorato e sappiamo che è incomparabilmente più vasto e strano del nostro “peeble in the sky”.
Se c'è – c'è – crisi della sf non è dovuta alla vastità dell'area dell'ignoto, ma alla ristrettezza della nostra capacità di meraviglia.
Un mio amico scrittore, purtroppo deceduto, diceva che tutti i generi narrativi nascono dal genere dell'avventura.
Dapprincipio ero un po' scettico su questa affermazione, ma più passa il tempo più mi convinco che aveva ragione.
Limitando il discorso alla sf, ma come già accennavo nel blog, il protagonista parte, nel tempo e nello spazio, e trova qualcosa. Può essere una benedizione o una maledizione, quindi anche la via nichilista non è esclusa (e si trova sul crinale tra horror e sf), ma trova qualcosa e ne è meravigliato, o fino ad esserne annientato oppure fino ad accedere ad altri livelli di conoscenza o scienza. Persino se non trova nulla è meravigliato, quindi pure questa opzione non è incompatibile con l'idea di scoperta.
Sempre come accennavo nel blog, però, oggi non ci meravigliamo più delle scoperte scientifiche e tecnologiche. Intelligenza artificiale, viaggi su Marte, tutte realtà presenti o prossime venture (e che la sf aveva già raccontato)... l'opinione pubblica non mi pare appassionata di questi argomenti come lo era, per esempio, dello sbarco sulla Luna o degli avvistamenti degli Ufo che comparivano su ogni giornale del decennio successivo. In una parola: non ci emozioniamo più come un tempo per queste cose e, se accade, spesso ci spaventiamo. Un mio coetaneo insegnante, allorchè parlò ai liceali dei primi passi dell'IA si sentì per prima cosa evocare lo spettro di Skynet. Chi conosce Terminator sa di cosa parlo; in breve, un racconto distopico di quando i genitori di quei ragazzi avevano l'età che loro hanno adesso e che è stato proposto e riproposto (troppo) ma non ha prodotto altri sviluppi o riflessioni che andassero molto al di là di quelli originali.
In secondo luogo, scienza e tecnologia sono andate ormai così avanti da essere ben oltre la capacità di comprensione e gestione dell''uomo medio – specie in una società poco incline a scienza e tecnologia.
L'uomo medio degli anni '50 e '60, e forse anche un po' dopo, se l'auto si guastava poteva metterci mano e, capendoci qualcosa, spesso ripararla almeno quanto bastava per portarla dal meccanico. Oggi prende il cellulare e chiama il meccanico che cambia il pezzo perchè, da solo, non ne sarebbe capace.
RispondiEliminaL'uomo degli anni del boom, che per me sono stati una sorta di riedizione riveduta e corretta del positivismo e dell'ottimismo della belle epoque (in parte lo sono stati anche gli anni '80, ma già alcune cose erano cambiate), poteva ancora immaginarsi alla guida di un veicolo che lo portasse, se non lui i suoi pronipoti, sulla Luna per un pic nic.
Noi no.
Scienza e tecnologia sono per noi troppo avanzate – avanti, chi di voi, davvero, può dire di capire di smartphone tanto quanto i suoi genitori o nonni capivano del motore di una Cinquecento? - per poterle padroneggiare e, soprattutto, ripeto, per emozionarsi.
Ricordo lo stupore di mio nonno quando mi vide usare il primo telecomando. Da buon meccanico non riusciva a concepire che un aggeggio potesse far funzionare un altro aggeggio senza fili o bottoni che li collegassero. La sua reazione fu, testualmente, qualcosa come “Ma allora non c'è bisogno di santi e miracoli!”. Avvertiva ancora l'impronta ottocentesca, essendo nato ai primi del secolo scorso, e poi, si sa, invecchiando si torna un po' bambini. Poi gli spiegai la faccenda dei raggi invisibili ecc, si ricordò delle radiografie che aveva fatto in vita sua e lo sconcerto svanì.
Come diceva Clarcke, qualunque forma di tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia. Ecco perchè c'è sempre meno “scienza” nel racconto fantascientifico. Un film come “Interstellar” è una lodevolissima eccezione e così romanzi come “Il Quinto Giorno” o “Il problema dei Tre Corpi” (con tanto di serie, tanto per tornare all'argomento “cinema”).
Ma la magia è competenza del fantasy.
Il nonno di Rubrus, leggendo "Cinque settimane in pallone" e "Dalla Terra alla Luna" avrebbe potuto, con le sue conoscenze, realizzare tanto l'aerostato quanto il cannone. Questo perché Verne fornisce una descrizione accuratissima delle due macchine e perché possedeva le conoscenze scientifiche necessarie alla loro comprensione. La vera domanda tuttavia è se un giovane di oggi avrebbe potuto esserne capace. La risposta è no per due differenti ragioni. La prima è la disabitudine alla lettura: oggi qualunque casa editrice taglierebbe le splendide pagine tecniche di Verne, "non gliene frega niente a nessuno, troppo complicate". Da ragazzo leggevo proprio quelle pagine "tecniche" con maggiore avidità. La seconda ragione era che qualunque mio coetaneo era in grado di comprendere che una macchina era una macchina, una cosa che si fa con le mani. Se voglio fare andare più veloce il motorino dovrò sostituire il carburatore, se lo voglio ancora più veloce, dovrò rialesarlo. Allora, pronti in officina. Quello che è successo negli ultimi anni è stato che il consumismo ci ha spinto a considerare le macchine non come tali ma come "scatole magiche". Se vuoi migliorarne devi aspettare e comprare il nuovo modello. I primi telecomandi che apparirono vennero chiamati dalla stampa "scettri elettronici", oggetti magici, appunto. E dire che io che studiavo fisica e, prima ancora con la "Scuola Radio Elettra", quelle cose le sapevo fare con le mie mani...
RispondiEliminaQualcuno sostiene che un transistor è troppo difficile da comprendere. Nulla di più falso se te lo sanno spiegare o se sei capace di leggere. Ma quale sarebbe la ragione per studiare oggi, in una società in cui un docente o un ricercatore guadagnano molto meno di un palazzinaro colluso con la mafia?
Da tanti anni insegno fisica all'università, a Fisica e a Ingegneria. E la cosa più difficile per me continua a essere il far capire ai ragazzi, che puoi fare con le tue mani e con il tuo cervello, che non ci sono bacchette magiche.
Mi piace un sacco questa botta e risposta, io poveraccio me non sono alla vostra altezza ma con piacere vi vedo e vi apprezzo, soprattutto perché non ve ne frega un fico secco se non ci sono altri interventi. Firmato il Fest
RispondiEliminaFantascienza mon amour! il mio genere preferito a parimerito col western 😁. Che bello leggere un'analisi sì personale ma oggettivamente centrata e anche in linea col mio pensiero (che non guasta...). Poi in questa puntata (?) i commenti continuano un'analisi anche storica molto interessante. D'altronde quando ci sono due professori che interagiscono... 👍
RispondiEliminaHo sempre fruito la fantascienza fin da bambino tramite TV (partendo dall'anime Goldrake che è pura fantascienza dopotutto) e cinema, poi crescendo leggendo libri e fumetti. Adoro Asimov (preferisco il ciclo della Fondazione che quello dei Robot) anche se non ho di certo letto tutto... Un'opera autoriale (per distinguere il concetto da opere puramente commerciali) parla sempre del presente e la fantascienza è un efficace "occhio alieno" per capire la società attuale (all'opera) ed esorcizzare le paure del futuro. Non ho niente di particolarmente originale da aggiungere, dico solo a chi magari non si sente in sintonia col genere di provare a leggere uno dei molti capolavori riconosciuti o a guardare un film in ugual modo considerato valido. Potreste ricredervi. Alla prossima allora, fantasy sia!